lunedì 9 maggio 2016

LA LINGUA DEL SÌ

Come le analoghe denominazioni relative agli Arabi, ai Turchi, agli Austriaci, ai Russi e ad altri popoli costruttori d’imperi, così anche Romanus è uno di quegli aggettivi e sostantivi che, dopo aver indicato l’appartenenza ad una comunità nazionale o tribale o ad un luogo particolare, persero quasi del tutto l’originario valore etnico per rivestire un’accezione giuridica e politica. Fu così che tra il IV e il V sec. d. C. l’africano Agostino poté scrivere che nell’Impero romano “omnes Romani facti sunt et omnes Romani dicuntur” (1) e un alto funzionario imperiale d’origine gallica, Claudio Rutilio Namaziano, componeva l’ultimo inno in onore di Roma celebrandone la missione: “Fecisti patriam diversis gentibus unam, (…) urbem fecisti quod prius orbis erat” (2).
Tuttavia allo spazio imperiale romano, che per mezzo millennio costituì un’unica patria per le diversae gentes comprese tra l’Atlantico e la Mesopotamia e la Britannia e la Libia, non corrispose un’unica lingua comune, poiché nella parte orientale, sia prima sia dopo la divisione ufficiale tra Arcadio ed Onorio, non giunse mai a termine il processo di romanizzazione linguistica. “E’ noto che il Latino trovò sempre molta difficoltà a imporsi in quei territori in cui si trovò in concorrenza col Greco, lingua che aveva, presso gli stessi Romani colti, un maggiore prestigio storico e culturale” (3). Quello romano fu dunque in sostanza un impero bilingue: il latino e il greco, in quanto lingue della politica, della legge e dell’esercito, oltre che delle lettere, della filosofia e delle religioni, svolgevano una funzione sovranazionale, alla quale gli idiomi locali dell’ecumene imperiale non potevano adempiere.
Con la fine dell’Impero d’Occidente, ebbe luogo quella frantumazione della latinità che favorì il processo di formazione delle parlate romanze, sicché sul principio del sec. XIV l’Europa appariva agli occhi di Dante articolata in tre aree linguistiche: quella corrispondente alle parlate germaniche e slave nonché all’ungherese, quella greca e quella neolatina, all’interno della quale egli poteva ulteriormente distinguere le tre unità particolari di provenzale (lingua d’oc), francese (lingua d’oil) e italiano (lingua del sì). Ma Dante era ben lungi dall’usare l’argomento della frammentazione linguistica per sostenere la frammentazione politica; anzi, solo la restaurazione dell’unità imperiale avrebbe potuto far sì che l’Italia, “il bel paese là dove il sì suona” (4), tornasse ad essere “il giardin dello ‘mperio” (5). E l’impero aveva la sua lingua, il latino, poiché, come diceva lo stesso Dante, “lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile” (6).
Se nella visione di Dante l’identità linguistica e quella nazionale rimanevano all’interno dell’ideale cornice dell’Impero, con la fine del Medio Evo venne in primo piano il nesso di lingua, nazione e Stato nazionale. Tale nesso “si rafforzò poi per il sorgere d’una politica linguistica degli stati, si ravvivò nelle polemiche letterarie e in quelle religiose, acquistò colore e vivacità nelle fantasie popolaresche o semidotte sui caratteri delle lingue e nazioni europee, e assunse, infine, la dignità d’una idea centrale nelle meditazioni di Francesco Bacone e di Locke, di Vico e di Leibnitz sulla storia linguistica e civile dei popoli” (7).
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo, quando in alcune parti d’Europa venne proclamato il principio dell’autonomia politica delle nazionalità, la lingua diventò bandiera di lotta politica. “Se chiamiamo popolo gli uomini che subiscono le medesime influenze esterne sui loro organi vocali e che, vivendo insieme, sviluppano continuamente la propria lingua comunicando sempre tra loro; dovremo dire che la lingua di questo popolo deve essere di necessità quella che è e non può essere diversa. (…) Tutto lo sviluppo di un popolo dipende dalla natura della lingua da lui parlata” (8). Così, attraverso queste parole di Fichte, si esprime il nazionalismo romantico agl’inizi dell’Ottocento, mentre si manifesta l’esigenza che ad ogni unità statale corrisponda una parallela unità linguistica. “Ogni sistema linguistico, in quanto condizione di reciproca comprensione e affratellamento, è una spinta verso un disegno politico di indipendenza, di unità” (9). Dove l’aspirazione all’autonomia era ostacolata dalla dispersione della nazione in una serie di entità politiche subnazionali, il richiamo all’unità linguistica diventava fattore di unità; ma se il progetto d’autonomia doveva confrontarsi con una formazione statale sopranazionale, allora l’enfatizzazione dell’identità linguistica veniva a costituire un fattore di ulteriore disgregazione dello spazio politico europeo.
Per quanto riguarda in particolare il Risorgimento italiano, se esso da una parte contribuì alla disgregazione dello spazio politico europeo sottraendo all’impero absburgico i territori italiani direttamente o indirettamente soggetti all’Austria, dall’altra si trattò pur sempre di un processo unitario, perché il potere dei Savoia si estese su tutta una Penisola che era precedentemente frazionata in sette entità politiche. Fu così che nel Regno d’Italia la scuola, la burocrazia e l’esercito modificarono le condizioni linguistiche e contribuirono alla diffusione della lingua comune; all’azione degli organi del nuovo Stato unitario si aggiunse quella svolta dalla stampa (quotidiana, periodica e non periodica) e dagli spettacoli, poi dal cinema sonoro e dalla radio.
Con la Grande Guerra, che favorì la temporanea convivenza di soldati originari di ogni parte del territorio nazionale, il lessico italiano si arricchì di unità lessicali provenienti da vari dialetti. Ma le sorti della lingua italiana furono decise dagli esiti della successiva guerra mondiale: l’invasione e l’occupazione dell’Italia e il suo inserimento nell’area geopolitica egemonizzata dalle Potenze atlantiche segnarono l’inizio di un processo linguistico che ha condotto alla nascita dell’attuale itanglese. Giacomo Devoto ha registrato l’avvio di tale processo usando la terminologia anodina e fredda del glottologo: “Una impronta interessante anglo-americana lasciarono, irradiando da Napoli, i ragazzi detti sciuscià (dall’inglese “shoeshine”), in quanto si offrivano come “lustratori di scarpe”. Anche segnorina, riferita al significato restrittivo di “passeggiatrice”, è sì l’italiano “signorina”, ma la pronuncia E della vocale protonica vi è rimasta come traccia della pronuncia normale sulla bocca dei militari anglo-americani a Napoli, e cioè del filone che le ha assicurato la fortuna” (10).

1. Sant’Agostino, Ad Psalmos, LVIII, 1.
2. Rutilio Namaziano, De reditu, I, 63-66.
3. C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna 1982, p. 174.
4. Dante, Inf. XXXIII, 80.
5. Dante, Purg. VI, 105.
6. Dante, Convivio, I, 5.
7. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari 1965, p. 10.
8. J. G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, Edizioni di Ar, Padova 2009, pp. 58 e 69.
9. G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, Rizzoli, Milano 1974, p. 295.
10. G. Devoto, op. cit., pp. 327-328.
11. A. Graf, L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII, Loescher, Torino 1911, p. 426.
12. A. Benedetti, Le traduzioni italiane da Walter Scott e i loro anglicismi, Olschki, Firenze 1974; A. L. Messeri, Voci inglesi della moda accolte in italiano nel XIX secolo, “Lingua nostra”, XV, 1954, pp. 47-50; A. L. Messeri, Anglicismi ottocenteschi riferiti ai mezzi di comunicazione, “Lingua nostra”, XVI, 1955, pp. 5-10; A. L. Messeri, Anglicismi nel linguaggio politico italiano nel ’700 e nell”800, “Lingua nostra”, XVIII, 1957, pp. 100-108.
via claudiomutti.com
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